quarta-feira, 22 de outubro de 2008

L’arte del riso

Il Nord della Penisola è pieno di risaie e di ristoranti mitici per gustare un piatto di storia tutta italiana


I chicchi di riso e gli stagni isolano un mondo di lavoro e accomunano fatica e fame in un viaggio che dura da almeno settemila anni, e inizia in estremo Oriente. C’è una bella descrizione di Giorgio Armani che la dice lunga su quel chicco: «il suo aspetto pulito, il colore opalescente, che cresce dalla terra in simbiosi con l’acqua, nelle romantiche risaie...». Un rincorrersi di specchi d’acqua che hanno nella Lomellina e nella piana vercellese, la loro roccaforte.
Candia, Mortara e Robbio, dove al castello, Ludovico il Moro, signore di Milano, diede il via alle coltivazioni delle sementi ricevute dal cugino Gonzaga. La Bassa Padana che amava Gianni Brera
il calcio, le rane e il riso, protagonista, a tavola, di un momento solenne, prima del vino a fine pasto e dell’immancabile sigaro. Raffinate suggestioni, partite da lontano, quando coltivare era una sofferenza epocale e nelle dispense di campagna bastavano appunto riso, cipolla, burro, un fondo di vino e qualche ingrediente di stagione: asparago, fungo, luppolo selvatico, erba salvia. E il giorno dopo, «saltato», il risotto era ancora meglio. Mario Soldati, Dino Buzzati, Curzio Malaparte, Indro Montanelli, non se lo sono mai fatti mancare. Con l'ossobuco poi, il riso Milano style era una vera golosità. Se ne è accorto anche il cinema. Con Riso amaro Silvana Mangano ha reso giustizia a una generazione di mondine, e a un alimento ricco di amido, facendo conoscere la Tenuta Veneria, Vercelli, dove si coltivano, dal 1789, le varie qualità: Carnaroli, Baldo, Vialone nano, Balilla. Acquitrini e zanzare, prima di gustare un piatto di panissa preparata con i fagioli borlotti di Saluggia. E poco lontano, al Principato di Lucedio, a Trino, una volta abbazia cistercense, insieme alla coltura del Rosso e del Selvatico, c’è il fascino del nero Venere. Storie di passioni e di famiglie come i Pavan a Grumolo, provincia di Vicenza dove, alla riseria delle Abbadesse, le monache benedettine, dopo l’anno mille, avviarono la coltura; e lì si ha ancora l’ambizione di sgusciare, ma non «sbiancare» il chicco.

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